Intervento di Manuela Audisio in ricordo di Pietro Mennea
Ci sono vuoti molto pieni: di vita, di riscatti, di fatica. Di felicità e di primati. Pietro Mennea ci ha lasciato molto, tanto, una corsa infinita che ancora oggi dopo 34 anni in Europa nessuno è riuscito a superare. Prima della guerra si diceva ai bambini mangia che diventi forte come Carnera, dopo la guerra si diceva pedale, vai in fuga, e sarai un campione come Coppi, dagli anni 70 in poi in Italia si è detto corri veloce e sarai Mennea. Pietro non era Superman, ma un bianco del sud, che veniva dai campi di grano della Puglia, dove sfidava le auto in corsa. Partiva in una condizione di svantaggio: magro, storto, affamato. Niente piste, solo rabbia. Era un blues: di rinunce, di sofferenza, di scarpe sfondate, di ostacoli superati, di splendida magia. La sua corsa, senza guardare in faccia nemmeno il giorno di Natale, è stata tra due neri: Tommie Smith e Michael Johnson, per diciassette lunghi anni. Un record nel record quel 19”72 nei 200 metri che ancor oggi è la nona miglior prestazione mondiale. Una linea bianca di sudore che da Città del Messico (’79) lo ha portato in giro per il mondo, fino all’oro di Mosca (’80) ottenuto con una rimonta pazzesca, bella e disperata. Ma Pietro è stato molto di più: 5 Olimpiadi, la prima a Monaco nel ’72, l’ultima a Seul nell’88, 33 record italiani, 12 stagioni di grande atletica, l’uomo che nella storia olimpica è stato più presente in pista: 32 turni. Mister Giochi. Un campione di continuità. Molto più dell’immenso Carl Lewis che di turni ne ha passati 29.
Ha scritto il poeta americano Robert Frost: «The best way out is always through». Il miglior modo per uscirne fuori è quello di passarci in mezzo. Bisogna guardare in faccia tutto e tutti, attraversare la battaglia, accettarla, vincerla, non darle le spalle. Non basta correre, bisogna misurarsi, che è cosa diversa, più difficile, più estenuante. E Mennea si è misurato con la sua voglia, con quella degli altri, con il mondo. Andava a caccia di sprinter, soprattutto americani, voleva i loro scalpi, per urlare che da Barletta era venuto il più veloce, il più duraturo nel tempo, un rompiscatole, un osso duro, un imbattibile. L’ultimo bianco capace di tenere testa alla concorrenza.
A 31 anni al primo mondiale di atletica, organizzato da Nebiolo a Helsinki, tutti presenti, fu capace di vincere il bronzo nei 200 e di spronare la staffetta 4x100 all’argento, davanti solo gli Usa. 350 giorni sulla pista di Formia ad acqua, nemmeno minerale, perché il professor Vittori non voleva. Mennea si è allenato fino a diventare un solo grande muscolo, un cuore che andava sulle piste: era quella la sua imbattibilità. Aveva una febbre che poi è quella che porta in cima, era disposto a perdere per questo ha vinto. Sapeva di partire da dietro, per questo ha battuto gli altri che sembravano avere più corpo, non più anima. Per questo ha durato e per questo durerà. Pietro voleva dare un futuro agli altri, segnare una via, dimostrare che c’era una scuola azzurra della velocità, che studenti come lui e maestri come Vittori insieme potevano ottenere molto. E a Formia c’era anche Sara Simeoni che volava. Con lui l’Italia sorpassò, andò in testa, e la cosa sembrò così stupefacente che per anni ci siamo passati le sue corse oltre il suo nome. In tutti noi e in maniera diversa la sua scomparsa ha sciolto un grumo, ci ha fatto ricordato l’orgoglio di andare a testa alta, l’impegno che ci vuole per essere bravi, la serenità del dovere compiuto. Non solo una volta, ma tutti i giorni in cui si scende in pista. Il non accettare di essere miseri, sciatti, non all’altezza. Perché in corsia non si rappresenta mai solo se stessi e perché la vita è una staffetta dove conta spingersi, ma anche spingere l’altro a nome di tutti.
Pietro è stata la nostra grandezza, la nostra diversità, la nostra cosa meravigliosa. Il più ostinato, il più polemico, il più controverso, il più pioniere, il più insoddisfatto, il più dubbioso, tanti addii e tanti ritorni. Forse perché cercava ancora le parole per dirlo e un amore nel quale realizzarsi, ma è stato anche un uomo molto tenero, tanto da togliersi una medaglia dal collo al ritorno da una competizione internazionale per regalarla ad un bambino che lo guardava estasiato. Ci ha fatto vivere, sognare, correre in curva, rincorrere, tagliare il traguardo. Un all italian boy. Ci ha dato un posto nella storia: in alto, non in basso. Ma soprattutto ora ci ricorda che si può e si deve costruire. A partire da se stessi. Pietro ci ha lasciati, ma il suo modo di vincere resta. E nessuno lo porterà via. Perché comunque il prossimo che arriverà sarà sempre il nuovo Mennea.